Se non c’è esplicito dissenso, se c’è un consenso informato per un intervento diverso, se l’esito è fausto, se l’intervento è prevedibile, il medico non è responsabile. Cassazione - Sezioni unite penali - sentenza 18 dicembre 2008 - 21 gennaio 2009, n.2437

La circostanza, che il consenso informato trovi il suo fondamento direttamente nella Costituzione, e segnatamente negli artt. 2, 13 e 32 della Carta,pone in  risalto - secondo il Giudice delle leggi - la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: «quello all’autodeterminazione e quello alla  salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla  natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le  più esaurienti possibili, proprio per garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente  all’art. 32, secondo comma, della Costituzione. Discende da ciò  che il consenso informato deve essere considerato un principio fondamentale in materia  di tutela della salute, la cui conformazione è rimessa alla legislazione statale».
 La giurisprudenza di questa Corte ha più volte avuto modo di puntualizzare che, ai fini della configurabilità del delitto di violenza privata, il requisito della  violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione ed azione, ben potendo trattarsi di violenza  fisica, propria, che si esplica direttamente nei confronti della vittima, o di violenza impropria, che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad  esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione
 L’azione o l’omissione, che la violenza o la minaccia sono rivolte ad ottenere dal soggetto passivo, devono però essere determinate, poiché, ove manchi  questa determinatezza, si avranno i singoli reati di minaccia, molestie, ingiuria, ma non quello di violenza privata.
 La violenza, è un connotato essenziale di una condotta che, a sua volta, deve atteggiarsi alla stregua di mezzo destinato a realizzare un evento  ulteriore: vale a dire la costrizione della vittima a fare, tollerare od omettere qualche cosa; deve dunque trattarsi di “qualcosa” di diverso dal “fatto” in cui  si esprime la violenza. Ma poiché, nella specie, la violenza sulla persona non potrebbe che consistere nella operazione; e poiché l’evento di coazione  risiederebbe nel fatto di “tollerare” l’operazione stessa, se ne deve dedurre che la coincidenza tra violenza ed evento di “costrizione a tollerare” rende  tecnicamente impossibile la configurabilità del delitto di cui all’art. 610 cod. pen.
 Una significativa parte della giurisprudenza e della dottrina, è concorde nel mettere in luce un dato assolutamente incontestabile: vale a dire la sostanziale  incompatibilità concettuale che è possibile cogliere tra lo svolgimento della attività sanitaria, in genere, e medico-chirurgica in specie, e l’elemento  soggettivo che deve sussistere perché possa ritenersi integrato il delitto di lesioni volontarie. Una condotta “istituzionalmente” rivolta a curare e, dunque, a  rimuovere un male non può essere messa sullo stesso piano di una condotta destinata a cagionare quel “male”
 La questione, pertanto, finisce per coinvolgere direttamente la disamina della nozione stessa di “malattia”, ai sensi dell’art. 582 cod. pen., giacché anche a  questo riguardo le interpretazioni offerte da giurisprudenza e dottrina si sono non poco evolute nel corso del tempo.
 La semplice alterazione anatomica non rappresenta, in sé, un presupposto indefettibile della malattia, giacché ben possono ammettersi processi patologici che  non si accompagnino o derivino da una modificazione di tipo anatomico, così come, all’inverso, una modificazione di quest’ultimo tipo che non determini  alcuna incidenza sulla normale funzionalità dell’organismo si presenta, secondo tale condivisibile impostazione, insuscettibile di integrare la nozione di  “malattia”, quale evento naturalistico del reato di cui all’art. 582 cod. pen.
 Alla stregua dei riferiti rilievi è dunque possibile trarre alcune conclusioni. Una prima considerazione, che appare per molti aspetti dirimente agli specifici  fini che qui interessano, riguarda le peculiarità che caratterizzano, rispetto alla attività sanitaria in genere, l’intervento medico-chirurgico realizzato per fini  terapeutici. In quest’ultimo frangente, infatti, la condotta del medico è non soltanto teleologicamente orientata al raggiungimento di uno specifico obiettivo  “prossimo”, quale può essere, in ipotesi, la riuscita, sul piano tecnico-scientifico, dell’atto operatorio in sé e per sé considerato, quanto - e soprattutto - per  realizzare un beneficio per la salute del paziente. È quest’ultimo, infatti, il vero bene da preservare; ed è proprio il relativo risalto costituzionale a fornire  copertura costituzionale alla legittimazione dell’atto medico.
 Le “conseguenze” dell’intervento chirurgico ed i correlativi profili di responsabilità, nei vari settori dell’ordinamento, non potranno coincidere con l’atto  operatorio in sé e con le “lesioni” che esso “naturalisticamente” comporta, ma con gli esiti che quell’intervento ha determinato sul piano della valutazione  complessiva della salute. Il chirurgo, in altri termini, non potrà rispondere del delitto di lesioni, per il sol fatto di essere “chirurgicamente” intervenuto sul  corpo del paziente, salvo ipotesi teoriche di un intervento “coatto”; sebbene, proprio perché la sua condotta è rivolta a fini terapeutici, è sugli esiti  dell’obiettivo terapeutico che andrà misurata la correttezza dell’agere, in rapporto, anche, alle regole dell’arte. È, quindi, in questo contesto che andrà  verificato l’esito, fausto o infausto, dell’intervento e quindi parametrato ad esso il concetto di “malattia” di cui si è detto
 Pertanto, ove l’intervento chirurgico sia stato eseguito lege artis, e cioè come indicato in sede scientifica per contrastare una patologia ed abbia raggiunto  positivamente tale effetto, dall’atto così eseguito non potrà dirsi derivata una malattia, giacché l’atto, pur se “anatomicamente” lesivo, non soltanto non ha  provocato - nel quadro generale della “salute” del paziente - una diminuzione funzionale, ma è valso a risolvere la patologia da cui lo stesso era affetto.  Dunque, e  per concludere sul punto, non potrà ritenersi integrato il delitto di cui all’art. 582 cod. pen., proprio per difetto del relativo “evento”. In tale  ipotesi, che è quella che ricorre nella specie, l’eventuale mancato consenso del paziente al diverso tipo di intervento praticato dal chirurgo, rispetto a quello  originariamente assentito, potrà rilevare su altri piani, ma non su quello penale.
 Ove il medico sottoponga il paziente ad un trattamento chirurgico diverso da quello in relazione al quale era stato prestato il consenso informato, e tale  intervento, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis, si sia concluso con esito fausto, nel senso che dall’intervento stesso è derivato un  apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute, in riferimento, anche alle eventuali alternative ipotizzabili, e senza che vi fossero  indicazioni  contrarie da parte del paziente medesimo, tale condotta è priva di rilevanza penale, tanto sotto il profilo della fattispecie di cui all’art. 582 cod. pen.,  che sotto quello del reato di violenza privata, di cui all’art. 610 cod. pen

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