Successione mediata in materia di bancarotta.Cassazione penale, sez. V,sentenza 21 novembre 2007, n.43076.

La sentenza dichiarativa di fallimento non fa stato nel procedimento per bancarotta. Compete pertanto al giudice penale stabilire se, nel caso concreto, l'interessato possa essere considerato piccolo imprenditore, e, come tale, non soggetto alle disposizioni sul fallimento.
La novella di cui al D.Lgs. 9 gennaio 2006 n. 5, intervenuta in pendenza del processo penale per bancarotta a carico dell'imputato, deve essere considerata più favorevole rispetto a quella previgente, la quale, sul finire dell'art.1, recava "in nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali, disegnando in tal modo, un ben più ampio perimetro della punibilità per reati fallimentari a carico del soggetto imprenditore, rispetto a quanto stabilito dallo jus superveniens.
Poichè la sentenza dichiarativa di fallimento è elemento costitutivo del delitto di bancarotta, l'immutatio legis in ordine alla fallibilità dell'imputato si riflette sulla sussistenza stessa del reato in questione con conseguente applicabilità dell'art. 2 c.p., che regola la successione nel tempo della legge penale, delle norme che definiscono la natura del reato, comprese e di quelle norme extrapenali richiamate espressamente a integrazione della fattispecie incriminatrice, nonchè delle leggi costituenti indispensabile presupposto del contenuto sostanziale del precetto.
La norma transitoria D.Lgs. n. 5 del 2006, ex art. 150 ha carattere procedurale e regola le procedure concorsuali pendenti al momento della entrata in vigore. Essa non rende, tuttavia, ultrattivo lo status di imprenditore "fallibile" a mente delle norme previgenti, inibendo al giudice penale l'applicazione dell'art. 2 c.p., la cui ratio è, evidentemente, quella di evitare che sia sottoposto a sanzione penale un soggetto che, alla luce della nuova normativa, non sarebbe meritevole di punizione.

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