Sui rapporti tra l’azione di risoluzione e l’azione di recesso ex art. 1385 commi 2 e 3 c.c.. Fungibilità o alternatività di proposizione in giudizio.Cassazione Civile, Sezioni Unite, sentenza 14 gennaio 2009, n. 553.
Non è ammissibile la trasformazione di una domanda di risoluzione del contratto, finalizzata al risarcimento del danno integrale subito dalla parte non inadempiente, in una domanda di recesso con ritenzione di caparra poiché entrambe le azioni si trovano, tra loro, in una posizione di assoluta incompatibilità strutturale e funzionale.
Tale incompatibilità opera, inoltre, perché, dopo che la parte abbia intrapreso una delle due strade, che devono pertanto ritenersi alternative, si realizza l’effetto giuridico proprio che ad esse consegue: la caducazione ex tunc degli effetti del contratto.
È, oltremodo, preclusa alla parte non inadempiente la rinuncia all’effetto risolutorio, che consegue all’azione esperita, e ciò per ragioni di certezza contrattuale e di legittimo affidamento dell’altro contraente.
La domanda di ritenzione della caparra è, però, sempre proponibile, nel procedimento instaurando, anche se l’azione caducatoria prescelta dovesse prendere il nome di “azione di risoluzione”, nel qual caso, spetterà al giudice riqualificare tale azione con il giusto nomen giuridico. Viceversa, invece, non sarà possibile per le parti integrare l’azione di risoluzione, inizialmente proposta, con azioni risarcitorie o di ritenzione di caparra, nel corso del processo oramai instaurato, perché esse sarebbero da ritenersi entrambe “nuove” ai sensi dell’art. 345 c.p.c. e, pertanto, inammissibili.
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