Truffa ed indebito utilizzo di carte di credito.
I rapporti tra il reato di truffa ed il reato di indebito utilizzo di carte di credito o di pagamento di cui all’art. 1 del d.l. 143/1991, convertito con legge n. 197/1991.
Con l’emanazione del d.l. 143/1991, poi convertito nella l. 197/1991, il legislatore ha inteso combattere il fenomeno del riciclaggio di danaro “sporco”, predisponendo una disciplina penale ad hoc.
In particolare, l’art. 12 l. cit. sanziona la condotta di “chiunque, al fine di trarne profitto per sé o per altri, indebitamente utilizza, non essendone titolare, carte di credito o di pagamento, ovvero qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi”, nonché la condotta di colui il quale “al fine di trarne profitto per sé o per altri, falsifica o altera carte di credito o di pagamento o qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi, ovvero possiede, cede o acquisisce tali carte o documenti di provenienza illecita o comunque falsificati o alterati, nonché ordini di pagamento prodotti con essi”.
Ebbene, in primis non si può che sottolineare la complessità del dato normativo: invero, non vi è chi non veda come questo consti di varie condotte penalmente rilevati, risultando difatti possibile isolare l’indebito utilizzo di carte di credito o di pagamento, la falsificazione e l’alterazione delle stesse ed infine il possesso, la cessione o l’acquisto di carte di credito o di pagamento di provenienza illecita o comunque falsificate o alterate. Detta complessità ha determinato dunque la necessità di stabilire anzitutto se la norma in commento preveda più ipotesi di reato (trattandosi così di norma cd. cumulativa) ovvero se, al contrario, sanzioni una sola fattispecie delittuosa, la quale possa essere indifferentemente realizzata con una delle condotte ivi descritte.
Sul punto si sono espresse le Sezioni unite penali della Suprema Corte, le quali, sulla scorta dell’interpretazione logica e letterale della norma, hanno affermato la natura cumulativa della stessa: la disposizione in esame, dunque, descriverebbe due distinte fattispecie criminose ovvero, da un lato, l’indebita utilizzazione di carte di credito (e documenti affini), e, dall’altra, il possesso, la cessione o l’acquisizione di tali documenti di provenienza illecita. Si noti altresì che, stante l’eterogeneità strutturale e temporale delle due fattispecie anzidette, è ben possibile che i due reati de quibus concorrano tra loro.
Tuttavia, giova osservare come l’attenzione della giurisprudenza riguardo la norma in esame si sia appuntata su una questione ben diversa. Invero, quella concernente la natura cumulativa o meno dell’art. 12 l. cit. non rappresenta l’unica problematica che la disciplina antiriciclaggio del 1991 ha posto all’interprete. Si era difatti prepotentemente posto all’attenzione degli operatori del diritto il problema circa i rapporti tra le fattispecie descritte dalla disciplina speciale in esame ed i reati previsti dal codice penale agli artt. 640 e 648. Occorreva cioè stabile se vi fosse concorso apparente di norme ovvero concorso di reati.
Orbene, volendo limitare l’analisi del problema anzidetto a quanto di interesse, ossia ai rapporti tra il reato di truffa e l’art. 12 l. cit. (limitatamente alla parte in cui sanziona l’indebito utilizzo di carte di credito e di pagamento), si ritiene opportuno svolgere alcune brevi considerazioni circa la struttura dei due reati in esame, al fine di apprezzarne in maniera più nitida le rispettive peculiarità, e, di conseguenza, di fissarne i rapporti.
Ebbene, seguendo le linee interpretative tracciate dalla giurisprudenza maggioritaria, il reato di indebito utilizzo ex art. 12 si realizzerebbe indipendentemente dal conseguimento da parte dell’agente di qualsivoglia profitto ovvero dal verificarsi di un danno, posto che tali eventi si pongono entrambi quali reati – conseguenza (rilevanti tuttavia ai fini della determinazione della pena ex art. 133 cp.). Deve dunque ritenersi integrato il reato de quo allorché un soggetto utilizzi indebitamente carte di credito con il dolo (specifico) di perseguire un profitto per sé ovvero per altri, e purtuttavia senza che rilevi l’effettivo conseguimento di suddetto profitto, il quale dunque risulta essere elemento estraneo alla struttura del reato.
Sempre seguendo l’impostazione più accreditata in giurisprudenza, si osserva come il verbo “utilizzare” debba essere inteso nella sua accezione più ampia, comprendendo ogni uso della carta di credito o di pagamento che sia conforme alla propria funzione: si prescinde dunque dalla individuazione di modalità precise di uso, e si prescinde altresì dalla necessità che l’agente si trovi in possesso del documento anzidetto. In giurisprudenza si è infatti affermato che la materiale disponibilità della carta non rappresenta elemento necessario per la configurazione della fattispecie criminosa, ben potendo ritenersi integrato il reato de quo con la realizzazione di transazioni effettuate tramite l’inserimento nella rete telematica dei codici (o comunque dei dati) appartenenti ad una carta di credito (o, addirittura, ad una ricarica telefonica prepagata). Tale ricostruzione avrebbe tuttavia incontrato resistenza da parte di Alcuni in dottrina, i quali hanno rilevato come un simile argomentare finirebbe per condurre ad una applicazione in malam partem del dato normativo. Unitarietà di vedute si avrebbe invece nella perimetrazione del concetto di “indebito” utilizzo: in tal caso si ritiene concordemente che l’uso sia indebito (e dunque penalmente rilevante) allorché questo avvenga da parte di colui che non ne è titolare, ovvero contro la volontà di quest’ultimo, oppure qualora la carta venga usata secondo modalità contrastanti con le norme che ne regolano l’uso.
Volgendo invece lo sguardo al reato di truffa, si osserva come questo ricorra allorché l’agente procuri per sé ovvero per altri un ingiusto profitto con danno altrui, ponendo in essere “artifizi e raggiri” tali da determinare in altri un errore. La giurisprudenza si è in particolare soffermata sui concetti di “artifizio” e “raggiro”, in quanto elementi caratterizzanti la condotta dell’agente. A tal proposito ci si limita ad evidenziare come tali concetti presentino confini alquanto ampi, ricomprendendo al loro interno condotte sia attive che omissive, sia vere e proprie messe in scena che semplici menzogne. Ciò che effettivamente rileva non sono dunque le modalità concretamente seguite, quanto piuttosto l’idoneità della condotta ad indurre altri in errore, ovvero a rafforzare o comunque confermare una pregressa errata rappresentazione dei fatti in un altro soggetto (che ben può non coincidere con il soggetto passivo del reato), posto che l’art. 640 c.p. risulta esser posto a presidio (come rilevato da alcune pronunce, non solo del patrimonio, ma altresì) della libertà del consenso. Può dunque affermarsi che il reato di truffa si caratterizza per due elementi, ossia la condotta (attuata mediante artifizi e raggiri, come sopra delineati) e l’effettiva realizzazione di un profitto con conseguente danno altrui.
Tutto ciò posto, è facile vedere come risulti astrattamente sussumibile sotto entrambe le disposizioni in esame la condotta di colui il quale, utilizzando “indebitamente” una carta di credito o di pagamento, proceda, ad esempio, all’acquisto di un certo bene. Stante infatti il verosimile conseguimento di un vantaggio da parte dell’agente nonché (e soprattutto) la lata definizione di “artifizi e raggiri”, nella quale ben può esser compresa una simile condotta, ecco che la fattispecie descritta può integrare tanto un ipotesi di truffa quanto un’ipotesi di indebito utilizzo di carte di credito. Punctum pruriens è dunque quello di stabilire se l’adozione di artifici o raggiri si identifichi nell’uso indebito di carte di credito o di pagamento (ed affini).
Invero, la giurisprudenza è stata a lungo divisa, affermando talora il concorso di reati e talaltra il concorso fittizio di norme. Giova pertanto dar conto di tale contrasto giurisprudenziale, il quale (si anticipa) è stato risolto dall’intervento delle Sezioni Unite penali nel 2001, peraltro con la medesima sentenza prima citata.
E dunque, secondo un primo orientamento, tra il reato ex art. 640 c.p. e quello ex art. 12 l. cit. vi sarebbe stato concorso di reati, a seconda dei casi materiale o formale. Tale conclusione si fondava anzitutto sulla circostanza per cui le due fattispecie in esame erano state poste dal legislatore a presidio di altrettanti diversi beni giuridici: nel caso della truffa si tratta del patrimonio del privato (e, secondo alcune pronunce, anche della libera determinazione della volontà, soprattutto in materia contrattuale); nel caso di indebito utilizzo trattatasi invece dell’interesse pubblico ad evitare che il sistema finanziario venga utilizzato per riciclare denaro “sporco” (mentre la tutela del patrimonio dei privati riceve tutela solo indiretta). Veniva inoltre sottolineata la diversità strutturale tra le due fattispecie, in quanto, contrariamente alla fattispecie ex art. 12 l. cit., il reato di truffa richiedeva per la propria configurabilità il conseguimento di un profitto ed il verificarsi di un danno, nonché il coinvolgimento del soggetto passivo. Così argomentando si finiva per negare la sussistenza di un rapporto di specialità tra le due fattispecie criminose, così escludendo il concorso apparente di norme e, al contrario, affermando il concorso di reati: questo avrebbe potuto essere formale o materiale a seconda della condotta effettivamente tenuta dall’agente.
A tale impostazione si contrapponeva quell’orientamento giurisprudenziale il quale invece affermava la configurabilità nel caso di specie di un concorso fittizio di norme, da risolvere alla luce del criterio di specialità fissato dall’art. 15 c.p. In particolare, si sosteneva che anche il reato di indebito utilizzo di carte di credito era volto a tutelare il patrimonio del privato (o dell’ente pubblico raggirato), e che la sfera di applicabilità della suddetta fattispecie era tanto ampia da poter bene ricomprendere tanto le ipotesi in cui il danno si verifichi (come per la truffa) quanto quelle in cui invece mancava un danno.
Il contrasto giurisprudenziale del quale si è appena dato brevemente conto è stato infine risolto dalla più volte citata sentenza delle SS.UU. del 2001, la quale ha ritenuto di aderire all’orientamento da ultimo richiamato, seppur diversamente motivando.
La Suprema Corte, nell’affermare il concorso fittizio tra l’art. 640 c.p. e l’art. 12 l. cit., si sofferma in particolare sui criteri normalmente utilizzati per individuare i casi di concorso apparente di norme. Gli ermellini sottolineano come il principio di specialità scolpito dall’art. 15 c.p. risulti di difficile applicazione per due fondamentali motivi: in primis, l’ardua perimetrazione del concetto di “stessa materia”, che è presupposto applicativo dell’art. 15 c.p.; in secundis, l’incapacità del criterio di specialità di definire i rapporti tra certune categorie di norme, rispetto alle quali risulta impossibile individuare quale tra esse sia la norma speciale (e dunque applicabile) e quale la generale. Viene altresì evidenziato come tali deficienze a livello positivo vengano colmate dall’uso di altri criteri, quali quello dell’assorbimento e quello della sussidiarietà, non espressamente previsti dal legislatore ma purtuttavia rinvenibili nell’ordinamento, onde garantire il rispetto del principio del cd. ne bis in idem sostanziale.
Ed invero è proprio facendo applicazione del criterio dell’assorbimento che la Suprema Corte, nella sentenza già citata, afferma il concorso apparente di norme tra le due fattispecie in esame: si afferma infatti che i due reati de quibus presenterebbero condotte sovrapponibili, nella misura in cui l’adozione di artifici e raggiri (propria della truffa) costituisce uno dei possibili modi in cui si estrinseca l’uso indebito di una carta di credito.
Così opinando si arriva dunque a concludere per l’applicazione dell’art. 12 l. cit. in quanto norma assorbente rispetto all’art. 640 c.p.. La norma di legislazione speciale prevede difatti una pena ben più grave rispetto quella prevista dalla norma codicistica, ragion per cui deve ritenersi che la prima esaurisca il disvalore giuridico anche della seconda: la giurisprudenza è difatti concorde nel ritenere che il principio di assorbimento può operare solo in presenza di due condizioni, ovvero che la norma assorbente esaurisca il disvalore della norma assorbita nonché che la norma assorbente preveda altresì un trattamento sanzionatorio più grave. Quest’ultimo difatti tradirebbe inequivocabilmente la voluntas legis di considerare le due disposizioni penali come un unicum ai fini della pena.
Barbara Innocenti
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